Lei, lui e il noce | Il noce, Mastro T e una libreria.

 

Doveva essere solo una vacanza, invece fu un viaggio destinato a cambiare i connotati della sua quotidianità. Lei era ancora una ragazza quando dalla gigantesca Londra finì in un piccolo centro dell’entroterra marchigiano, lì decise di restare e di mantenersi insegnando la propria lingua. Affittò una casa in campagna ricoperta dall’edera e ogni giorno scarrozzava con la sua Cinquecento rossa su e giù per la collina per andare in paese. Una volta si presentò un coetaneo che voleva perfezionare il suo inglese e poco dopo quel suo studente divenne suo marito. Poi arrivarono due bambine. La famiglia si comprò la casa con l’edera e all’ombra di un noce trovava riparo dalla calura godendosi la quieta estiva.

Un noce imponente ma vecchio, dal tronco ricurvo. Arrivò il momento in cui dovettero abbatterlo, tuttavia decisero di non disfarsene. Del noce restarono solo delle tavole lasciate al sole e al gelo, una stagione dietro l’altra fin quando…

…fin quando la coppia pensa bene di farle entrare in casa. Allora interviene Mastro T che prende le tavole, le seleziona, le lavora e infine le unisce una all’altra soltanto tramite legature e incastri eseguiti a mano.

Il fu un noce. Ora è una libreria.

 

 

 

 

 

 

 

 

Mastro T, un filo della fune | Spazio 361 e Wood About

Qualche anno fa era solo un sogno, ora è una realtà.

Il sogno era quello di un luogo dove potessero riunirsi diversi professionisti in modo che potessero scambiarsi conoscenze, strumenti e competenze. Era di un laboratorio in fermento condiviso da artigiani e creativi dove non ci fossero confini (se non quelli legali), dove la convivenza non fosse regolata dalla concorrenza ma dalla collaborazione e dal rispetto. Era di uno spazio vivo e solidale.

Il sogno si è trasformato in realtà quando è stato inaugurato lo Spazio 361. Non che sia stato facile. Il saper convivere presuppone il desiderio di voler conoscere l’altro, la capacità e la volontà di mettersi nei suoi panni, di guardare anche dal suo punto di vista per imparare, una volta ritornati al proprio posto, ad andargli incontro. Convivere significa mettersi di continuo in discussione ed è faticoso, talvolta snervante. La sensazione può essere quella della perdita di libertà e di identità, subentra la paura, anche la paura di restare fregati. Convivere presuppone fiducia nell’altro.

Ecco, Spazio 361 è nato grazie a un atto di fiducia rinnovata giorno dopo giorno non solo attraverso momenti di condivisione e amicizia ma anche tramite scontri e momenti di difficoltà, di disagio superati con il dialogo.

Wood About è, sì, un marchio ma soprattutto è il frutto di questa sinergia, è un atto creativo inclusivo, è la dimostrazione che quando i fili si intrecciano a formare una fune sono molto più forti.

Gli artefici di Wood About parteciperanno al Toc Festival di Tolentino. Quale migliore occasione per conoscerli di persona?

 

 

Un mobile è un mobile | Totò, Mastro T e ‘a livella

Quando un mobile o degli oggetti abbandonati a loro stessi in cantine polverose o ammassati in discariche affollate di moribondi e cadaveri meritano di essere recuperati? Esiste un criterio per decidere se lasciarli al loro destino oppure riportarli alla luce e restaurarli? E come si deve comportare un restauratore? Un mobile è un mobile o ci sono mobili e mobili?

Forse le risposte possono essere diverse, dipende dalla persona cui ponete la domanda. Forse, come sempre, è una questione di punti di vista. Ma per Mastro T non ci sono dubbi. I motivi che spingono a voler togliere la polvere da un mobile, a toglierlo dalla strada o a riportarne a casa uno trovato chissà dove sono sempre personali e validi. E una volta salvato, applica il principio della livella: un mobile è un mobile e tutti devono essere trattati allo stesso modo.

Questa è la storia di un vecchio banco da falegname, salvato da un ingegnere che se ne è innamorato e restaurato da Mastro T:

 

 

“Noi siamo alberi e gli alberi sono uomini” | Mastro T e Mauro Corona

 

E così nel bosco, proprio come nella società, sembra che ci siano i buoni e i cattivi, gli umili e gli arroganti, i lavoratori e gli scansafatiche, i belli e i brutti. Per lo meno così risulta passeggiando con Mauro Corona tra gli alberi di Erto.

Corona ci racconta delle piante che popolano il suo bosco e ce ne parla come se stesse parlando di amici e nemici di lunga data. Attraverso le sue parole scopriamo che ogni albero ha un corpo e un carattere, un’attitudine. Inoltrandoci insieme a lui incontriamo l’acero, all’apparenza forte e sicuro di sé invece fragile e con la tendenza a farsi dominare. Il maggiociondolo che si piega e vive di stenti, contento del poco di cui dispone; schivo e riservato ma basta che gli tendi la mano e lui è pronto ad afferrarla per non lasciarti cadere. La betulla: alta, elegantissima, diritta. Basta un soffio di vento e inizia a ondeggiare richiamandoti a ballare insieme a lei. Fragile eppure con una forza di volontà e una resistenza insospettabili. I filari di faggi sono la grande umanità del mondo, la folla, la massa: la fabbrica funziona perché ogni mattina ci sono loro a timbrare il cartellino, i lavoratori coscienziosi. Umili, semplici e di cuore. Come potrebbe vivere una società soltanto con il timido maggiociondolo o con la raffinata betulla o con il duro ma vulnerabile acero? Poi c’è il tasso che non chiede mai nulla, che nato con la camicia non ha bisogno di mendicare attenzione. È un albero fortunato ma delicato, non adatto alla fatica e alla sofferenza. Il nocciolo è uno spilungone ben vestito che quando lo vedi ti da l’idea del furbetto che non vuole fare nulla, la fatica lo spaventa a tal punto che rifiuta persino di crescere e diventare grosso. Al pari di tutti i vili e i fannulloni si fa forte nel branco, per questo cresce insieme agli altri noccioli formando delle combriccole. Il carpino, il solitario che ama contemplare l’orizzonte; simile all’ulivo per le forme contorte ma, mentre “l’ulivo esprime e lascia vedere le tribolazioni”, il carpino trattiene tutto il dolore dentro di sé. Se il più testardo è il carpino, il più sfortunato è il pioppo: appartiene alla “schiera dei disgraziati”, quelli che non solo non hanno pregi ma nemmeno la salute, che vivono aspettando che la morte vada a prenderli. Ed è “con la morte che avviene il riscatto: stritolato dalle macine e pressato il pioppo si trasforma in carta per offrire rifugio alle parole”. La muga, o pino mugo, è la cattiva per antonomasia; “subdola di natura, cresce falsa e disonesta ed è anche rompiscatole. A differenza dell’agrifoglio che tiene per sé la cattiveria, lei la dispensa a piene mani al prossimo”. Come i noccioli e i sambuchi, anche lei prende forza dal branco. L’agrifoglio è superbo, non vuole diventare vecchio e non vuole essere avvicinato, vuole solo essere ammirato. Mentre l’agrifoglio mostra subito la sua cattiveria, il sambuco, “gracile e inutile ma con progetti ambiziosi e violenti”, la nasconde come qualsiasi meschino. L’acacia è durissima, taciturna, solitaria anche se in gruppo, burbera e inattaccabile. Ci sono legni che resistono finché non vengono spaccati e soccombono, altri invece che pur di vivere preferiscono piegarsi. Un albero che non si rompe mai è il viburno, il saggio che la sa lunga e che da buon opportunista si piega per non farsi spezzare. La calma dell’abete bianco è solenne e “tutti gli alberi, anche i più invidiosi e cattivi, lo accettano nel ruolo di grande controllore e padre”. È un giudice di pace sereno e dalla grande sensibilità, che consapevole della fallacia dell’animo cerca sempre il lato buono in ognuno dei suoi simili esercitando l’autorità senza arroganza. Il noce è un buon albero ma sempliciotto e vanitoso. Era un albero normale con qualche bel pregio finché qualcuno notandolo non lo ha reso potente e celebre, al punto che è ormai impossibile fermare la sua ascesa arrogante. L’opposto del noce per stile e carattere è il larice: l’amico, il fratello maggiore. Il pino sa sempre come aiutarti ma è vulnerabile e bisogna proteggerlo: “lui ti aiuta nel bosco ma pretende protezione e vuole stare dentro casa, altrimenti si rovina”. Poi ci sono piante che sono emigrate dal bosco per trasferirsi in città, alla ricerca del benessere. Come il ciliegio, il pero e il melo. Buoni d’animo e dal temperamento mite, rappresentano gli affetti e le cose buone della vita. Il tiglio è quasi fratello del pioppo ma meno disgraziato. Per uscire dalla sua misera condizione ha voluto esagerare e siccome non è un raffinato è caduto nella trappola della banalità: crede che basta spruzzarsi tanto profumo quando arriva la primavera per cambiare la propria origine. Maleducato, si fa strada alzando la voce, spingendo e sgomitando. Non conosce il rispetto per il prossimo e, come tutti i falsi, “quando incontra l’abete bianco china la testa e diventa servile per poi sfogarsi con i più deboli”. Quanta differenza tra il tiglio e il cirmolo, eppure profumano entrambi. All’apparenza ombroso e taciturno, il cirmolo possiede un’indole buona che nasconde nel quieto vivere. La quercia è la massaia, la donna che ha cresciuto la famiglia e poi si è rilassata. “Alta, grossa e sempliciotta. Non ha picchi di emozioni e sta lì a registrare gli avvenimenti che riferisce con bigotteria e quel senso dello scandalo tipico di chi non può commettere certi peccati”. L’ulivo non è un albero del bosco. È lo straniero, l’esotico. “Un albero nobile, bello e disperato che cresce nutrendosi di un dolore antico che lo deforma e lo contorce in curve impressionanti”.

Forse, se facessimo silenzio e imparassimo a osservare, anche noi riusciremmo a sentire le voci del bosco, a riconoscerle. Impareremmo a deporre l’accetta. Riusciremmo ad apprezzare l’abete e a ridimensionare il noce.

E il rovere? Di sicuro è un gran intenditore di vini, ma cosa ci direbbe?